mercoledì 26 ottobre 2011

Deer Tick - Divine Providence (Partisan, 2011)

Il signor Keith Richards, un adorabile rompicoglioni che immagino abbiate la fortuna di conoscere, afferma spesso, lamentandosi di qualche band che "ha il rock, ma gli manca il roll". Ora, spiegare questa affermazione (che condivido) a parole è di una difficoltà immonda. Come diavolo fai a far capire a qualcuno che cos'è il "roll"? È come spiegare come ti viene lo shank nel golf... estremamente difficile.

L'unico modo che mi viene in mente al momento è un consiglio: ascoltate questo cazzo di album. Il ragazzino con la voce scorticata che faceva (e fa!) cover dei Nirvana ne ha combinata una nuova... ed è un altro gioiellino quello che ci ha presentato. “We’re full grown men, but we act like kids!” urla John McCauley III, nella marcetta che apre l'album (The Bump), e probabilmente non c'è frase migliore per risolvere il mio dilemma iniziale. Tra Stones, Replacements e (!!!) Black Flag, con qualche spruzzata di country qua e là, l'unico difetto che posso trovare a quest'album è che talvolta sembra che sia stato registrato da una decina di band diverse, spaziando dalla ballatona a là Memory Motel (Now It's Your Turn) al punk rock (Let's All Go To The Bar, con tanto di coretti che sembrano presi da Tv Party dei Black Flag) fino al semi country di Clowing Around. 

Il referente principale mi sembrano molto più gli Stones di Exile che non i Nirvana di In Utero, ma non è importante, perchè quest'album è così fottutamente Deer Tick che le influenze contano fino ad un certo punto. Se ci fosse giustizia a questo mondo, questi tizi farebbero i soldoni e i Muse sarebbero ascoltati da quattro sfigati... ma c'est la vie.
Voto: 8.4

domenica 23 ottobre 2011

Tom Waits - Bad As Me (ANTI-, 2011)

Tom Waits è ormai diventato prevedibile. "Prevedibile", però, è un termine che, anche se ad orecchio ha una connotazione di taglio niente affatto positivo, assume una connotazione diversa in relazione al contenuto di ciò che sia prevedibile. Quando vedi affiancato ad un programma televisivo la parola "reality", è "prevedibile" sia una cagata. Quando sali sul traghetto che congiunge Messina con Villa S. Giovanni e compri uno dei tanto decantati "arancini del traghetto", è "prevedibile" che ti serviranno qualcosa di simile a palle di riso fritto in un oglio centenario che assimigliavano a supplì fatti e cotti da un cuoco in preda a violente allucinazioni [cit. Maestro Camilleri, "Il Campo Del Vasaio"]. Quando leggi Tom Waits, Marc Ribot, nuovo album... beh, è prevedibile.

E' prevedibile che ti troverai di fronte ad un'ennesima serie di canzoni di altissimo livello, con un Tom Waits in grande spolvero e un Ribot (qui non da solo, ma ora ci arriviamo) prevedibilmente stellare. Waits si trova invecchiato, ad affrontare - in un misto dell'ormai consueto nonsense che lo accompagna dai tempi di Rain Dogs e del classico crooning più da Mule Variations che da Blue Valentines - il tema della morte e della caducità.

Ad accompagnare Waits in questo prevedibile viaggio, abbiamo numerosi ospiti d'onore, da David Hidalgo (Los Lobos), a Flea, a Les Claypool, allo strepitoso armonicista Charlie Musselwhite per arrivare infine al supremo Keith Richards, che offre i suoi servigi a Waits in ben quattro pezzi, il più bello dei quali è senz'altro la ballatona Last Leaf, nella quale si affianca alla voce del buon Tom in una commovente esibizione di due vecchi bastardi che non hanno alcuna intenzione di ritirarsi, fortunatamente per noi.

Tom ci offre il suo solito noir, passando dalla graffiante title track alla swingata Talking at the Same Time con estrema nonchalance, esibendo, come ha brillantemente scritto il critico di Uncut Andrew Mueller, "una rauca celebrazione del suo stesso mito".

Prevedibilmente, nessun pezzo riempitivo, nessuna traccia minore, 13 splendidi pezzi di tipico cabaret Waits. E se preferite che un artista sia imprevedibile, e pubblichi 90 minuti di sottospecie di metal con un tizio che urla poesie... beh, andate a farvi fottere. Io mi godo il mio "prevedibile" maestro.
Voto: 8.8

sabato 22 ottobre 2011

Varie 2011 - cotto e mangiato

Decoder - Decoder
Non so chi o cosa mi abbia portato ad ascoltare questa cagata, ma la pagherà cara. I trentasette minuti di merda dei Decoder (Rise records, 2011, voto 2.3) sono una sottospecie di ri-edizione dei Linkin Park con invece del grazioso fregnone che rappa, in tizio che fa del growl tipo death metal o non so che cazzo. Non ho trovato una sola recensione negativa in tutto il web, quindi sono sempre più portato a sperare nell'estinzione del genere umano. Ogni melodia dignitosa - ma sempre di quel nu-metal insipido che fa fare la cacca - viene improvvisamente rovinata da un tizio che fa WHAUHWUAHHHAHHAHHHHHH WHAUHUAHAUHAHAHUUUAAAH... trovatevi un lavoro.

Jenn Grant - Honeymoon
Punch
Gradevole è invece il terzo album della  canadese Jenn Grant, Honeymoon Punch (Six Shooter, 2011, voto 6.8) pop rock influenzato dal soul, allegro e solare ma che non ascolterò mai più in vita mia. Una versione canadese di Cristina Donà, ma, almeno in quest'album, senza malinconie. Bella voce, belli gli arrangiamenti, canzoni gradevoli e ben scritte... però not my cup of tea.



Baby Woodrose -
Mindblowing Seeds and
Disconnected Flowers

Lorenzo Woodrose invece festeggia i dieci anni della sua band, i Baby Woodrose ripescando i demo originali pre-esordio, risalenti al 1999: i 15 pezzi di Mindblowing Seeds and
Disconnected Flowers
(Bad Afro, 2011, voto 7.0) sono un passabile campionario di garage rock psichedelico di quelli che un tempo riempirono la imprescindibile raccolta "Nuggets"... suddetta raccolta, però, aveva il pregio di sfoggiare uno o al massimo due pezzi per ogni gruppo, mentre qui è sempre la solita solfa: gradevole, psichedelica, anche ben scritta se vogliamo... ma molto meglio i dischi di materiale nuovo di questa band... questo è only for fans, digiamolo.

A.A. Bondy - Believers
Chiudiamo infine con A.A. Bondy ed il suo terzo album, Believers (Fat Possum, 2011, voto 7.7): l'ex leader degli ottimi Verbena è al suo terzo disco e propone la solita miscela di atmosfere bluesate e notturne con qualche slancio brillante, di quelle che trovereste in coda ad una puntata di House M.D. (si sa, i telefilm ormai fanno da trend setter nel campo della musica) e, trovandole in una puntata direste "di chi diavolo era quella bella canzone atmosferica? devo assolutamente saperlo". Mi ricorda in alcuni passaggi il buon Ryan Adams nei suoi passaggi meno country ed è sinceramente un piacere ascoltarlo, seppur il suo essere sostanzialmente monocorde (anche se qualitativamente di valore) lo esclude dalla cerchia dei campioni.

Ry Cooder - Pull Up Some Dust and Sit Down (Nonesuch, 2011)

Ho sempre molto stimato Ry Cooder. L'ho sempre ritenuto uno dei chitarristi migliori della storia: brillante, eclettico, feroce, fottutamente blues, ma allo stesso tempo capace di essere a suo perfetto agio, anzi addirittura leader sicuro e fiero, in mezzo ai novantenni cubani orgogliosi del Buena Vista Social Club. Quindi, vedere le recensioni entusiaste, addirittura spesso estasiate per questo suo nuovo lavoro mi ha fatto correre a... ehr... comprarlo.

Ascoltandolo per la prima volta per le vie di Barcelona mi sono convinto che chi lo esaltava avesse la testa su per il culo. Ma che diavolo è sta roba? Tex mex? Imitazioni di John Lee Hooker? Marcette da guerra di secessione? Mah.

Allo stesso tempo, i feroci testi che affrontano la situazione dell'occidente del mondo, dall'odio contro i banchieri alla sfiducia contro le istituzioni, dalla guerra alla crisi, e il lavoro di chitarra sempre magistrale di Cooder mi hanno inconsciamente convinto a non abbandonarne l'ascolto; e ad ogni ascolto successivo il gradimento è salito, salito, salito... fino a che adesso - sono al decimo ascolto in due settimane - ne adoro ogni fottuto passaggio.

Tutto lo scibile della musica tipicamente nordamericana viene qui raccolto, sfruttato, citato, tirato a lucido per raccontare la merda che stiamo mangiando, affrontando nello specifico il punto di vista americano. Qui il country, il norteño, il blues, il southern rock, il folk, il boogie, l'AOR... tutti al loro massimo splendore, si fondono in un dannato spettacolo di altri tempi, un capolavoro che ad ogni ascolto sembra migliore. La devastante Baby Joined The Army, oscuro blues sulla guerra o la delicata ballata country No Hard Feelings, pesante accusa ai governanti, sono gemme sia di satira politica sia di musica, così come la brillante imitazione di John Lee Hooker (a tratti disarmante nella sua perfezione, ma sulle doti tecniche di Cooder non possono esistere dubbi) che lo vede seduto sul trono della Casa Bianca ad enunciare il suo programma politico fatto di groove, scotch e bourbon (John Lee Hooker For President).

Sono certo che quest'album non se lo cagherà di striscio nessuno, del resto qui nessuno ha il boyfriend che sembra una girlfriend e uacciu uacciu uacciu, nè un taglio di capelli alla moda. Ma, per quanto mi riguarda, è davvero uno dei più incredibili dischi dell'anno. Ry Cooder for president.
Voto: 9.0

giovedì 20 ottobre 2011

Lou Reed & Metallica - Lulu (Vertigo/Warner, 2011)

Jim Morrison a Parigi
Narra la legenda (e conferma il nastro) che nei suoi ultimi mesi di vita, James Douglas Morrison in arte Jim, strafottuto di vino, bourbon o non so che cazzo, incontrò durante il suo vagare per le strade parigine due barboni - americani, credo - che suonavano cover di CSN&Y, sbronzi anche loro come delle merde, seduti sul marciapiede. Il buon Morrison non era estraneo al fare amicizia con scoglionati di ogni tipo, e decise che quei due fortunati sbronzoni sarebbero stati i suoi compagni musicali in un'artistica jam session in un qualche studio parigino del quale lo stesso Morrison avrebbe volentieri pagato il conto. Ne scaturirono i 15 minuti che contribuirono a dare forma a quel bootleg chiamato "The Lost Paris Tapes", la cui prima parte era invece composta dalle poesie (senza accompagnamento alcuno) che Jim registrò a Los Angeles nel 1969 e che finirono (con accompagnamento sovrainciso) su An American Prayer, uno dei tanti album postumi dei Doors. Ebbene, da giovine, quando ebbi modo di mettere mano su una copia di questo bootleg ero a dir poco esaltato... finalmente ascoltavo Jomo & The Smoothies, ultima testimonianza del poeta Morrison!

Era una cagata.
Una MOSTRUOSA cagata.
Una "cagata pazzesca", se vogliamo fare i citazionisti.

Morrison a stento riusciva a parlare, e biascicava versioni improbabili e incoerenti delle sue poesie, i due - aperte virgolette - MUSICISTI - chiuse virgolette - non erano in condizioni nemmeno di suonare un citofono, e non erano probabilmente in grado di suonare una chitarra nemmeno da sobri. Ne uscì una delle cose più tristemente comiche che abbia mai sentito; ma aveva un merito: era involontariamente comica. Non ti sentivi preso per il culo.

Non so se lo stesso merito sia attribuibile a questa opera meravigliosa, perchè Lou Reed non sai mai se ti stia prendendo per il culo o se faccia sul serio, come quando pubblicò un'ora di rumore su due Lp e disse che era un capolavoro, e quindi ti ritrovi a giudicare una voce maschile che ha tutta l'aria di essere la voce di un vecchio pazzo di quelli che trovi nei giardini pubblici ad inveire contro non si sa bene cosa, con aggiunto un sottofondo (melodicamente e ritmicamente incoerente con la voce) di musica metal, talvolta strutturata ma per la maggior parte del tempo frutto di percosse sugli strumenti per produrre qualcosa di vaghissimamente somigliante ad un riff; e non dimentichiamo i poetici testi del calibro di:
"The spring and the will follow me around
While you sniff your shit in the wind
Sniff your shit in the wind
Money can do anything" 

tratti da un'opera del drammaturgo tedesco Frank Wedekind (che culo!) e dalla sua opera madre (Lulù, appunto). Sinceramente, se Lou in questo momento se la sta ridendo alle nostre spalle (e possibilmente alle spalle dei Metallica), è veramente un grande, un genio, un artista. Se, invece avesse la pretesa che questa sia arte, beh... deve avere dei pesci rossi che gli sguazzano nel cranio.
Voto: 1.3

mercoledì 19 ottobre 2011

Varie 2011 - (The Chillwave Involution)

Me ne stavo per i cazzi miei, forzato a casa dalla ormai perpetua influenza e da un calcolo renale delle dimensioni della Libia, a bere Jack Daniels da un bicchierino adorabile con scritto I ♥ ROMA, a leggere riviste e a cercare nuovi album, quando, tra la mia caterva monumentale di mp3 freschi freschi di scaricamento, ho trovato sto cazzo di Neon Indian che già nel 2009 avevo visto osannato in ogni dove. E vabbuò, il Jack è qua che mi fluttua in testa, la serata peggio di così non può andare... chessaràmmai, ho sentito ogni genere di merda... sentiamo sto Neon Indian... sti Neon Indian... nsomma, Indian è singolare, no?
Neon Indian - Era Extraña

'Mmazza che cagata... ma che è sta roba? La necessità di controllare su Wiki è impellente, quasi un'urgenza, soprattutto per vedere critiche, osanna e robe simili.

Chily... che?

Fu così che mi imbattei nell'ultimo abisso della mente umana rapportato alla terminologia musicale. Chillwave. Nsomma, un non meglio definito ammasso di ciarpame tecnologico assemblato per suonare come se provenisse dagli anni '80, ma senza quel kitsch che caratterizzava l'infimo livello delle registrazioni e, più ancora, dei video. Senza il kitsch, ma senza nemmeno gente che suona qualche roba...

I Panda Bear ci fanno frignare
Il termine nasce dall'orribile, orribile blog Hipster Runoff, una di quelle cose che i ragazzi fighi di oggi leggono in America (o almeno, così credo), che raccolse in un post una sequela di band secondo lui simili, e gli diede questo stupendo nome, categorizzazione della quale si sentiva un impellente bisogno e che, difatti, è stata immediatamente adottata da tutto il fottuto mondo di quelli che parlano di musica, su carta ed online, a proposito ed a sproposito. Il fatto che il su citato blog sia stato votato da Time Magazine come uno dei blog dell'anno 2010 non fa altro che alimentare la mia misantropia, ma questo lasciamolo al mio psichiatra.

Vi basti sapere che uno dei presunti protagonisti della "scena", il leader dei Neon Indian, Alan Palomo ebbe non molto tempo fa ad affermare che [mentre prima un movimento prendeva le mosse da una città, con gente che si scambiava idee e proponeva musica] “adesso è solo un blogger o qualche giornalista che trova tre o quattro band in giro per la nazione e mette assieme un paio di punti in comune tra loro e lo chiama genere musicale”. Come dare torto ad Alan? Tanto più che il Jack Daniels imperversa mentre ascolto il suo penoso gruppariello.

I 42 minuti della mia vita che non recupererò mai di Era Extraña (Static Tongues/Mom + Pop, 2011, Voto: 4.3) registrato ad Helsinki per nessunissima cazzo di ragione, mi hanno indotto a pensare di uccidermi piuttosto che riascoltare ancora quella porcheria. E poi, porco cazzo, sei un fottuto messicano che vive in Texas, fai musica che registri probabilmente dietro a un fottuto laptop inserendo rumorini 8-bit che sembrano presi da Super Mario Bros in canzoncine di musica elettronica che quindi puoi registrare anche seduto sulla tazza del cesso di casa tua, MA CHE DIAVOLO VAI A REGISTRARE AD HELSINKI? Bah.

Twin Sister - In Heaven
Perlomeno in questa cagata qualche melodia la trovi, cosa che non si può dire del nuovo esaltante capolavoro dei Panda Bear, i 49 minuti della mia vita che non recupererò mai che rispondono al nome di Tomboy (Paw Tracks, 2011, Voto: 3.2) un'orgia sperimentale che fa sembrare le porcherie recenti dei Sonic Youth canzoncine di Madonna e che, molto probabilmente, non rientra nemmeno nei labili canoni di sta puttanata che hanno chiamato chillwave. La cosa divertente è che in questo scoglionamento impossibile di chitarre superprocessate, sintetizzatori e coretti, hai come contraltare le dichiarazioni  di questo tizio che ti dice che è stato ispirato dai Nirvana e dai White Stripes a fare un album carico di chitarre... ma mi sta pigghiannu po culu, vah? E' musica sperimentale, senz'altro. Ma se rutto per venti minuti in un lettore mp3 al ritmo di La Isla Bonita tamburellando con le dita su un sintetizzatore con una base di drum machine, starò pure sperimentando (e, per inciso, qualcosa di più interessante di questa roba qua) ma non per questo sto creando arte.

Com Truise - Galactic Melt
Memory Tapes - Player Piano
Un pochito meglio va con i Twin Sister ed i 35 minuti della mia vita che non recupererò mai di In Heaven (Domino, 2011, Voto: 5.9), indie pop gradevole seppur scipido, che mostra qualcosa di interessante in due pezzi, una Spain che sembra uscita dritta dritta da un film James Bond e una Gene Ciampi che sembra un misto tra una colonna sonora di un film italiano anni 70 (quelli così dannatamente alla moda di questi tempi, perchè, guarda caso, ci lavorava gente coi coglioni) e i Pizzicato Five e la loro frivola cazzoneria giappo. Non aspettatevi chissà che capolavori, ma già siamo sul lato dell'ascoltabile e non su quello della fogna di Calcutta della musica, come invece accade nuovamente con il mirabolante, extraordinaire, fantastique Com Truise che ci ha regalato i 43 minuti della mia vita che non recupererò mai di Galactic Melt (Ghostly International, 2011, Voto: 2.7), un tizio dietro al computer che programma roba che io dovrei ascoltare... e di fatto, puttana puttana, puttana la maestra, l'ho ascoltata questa roba... che vogliamo dire? Sono beat con sopra delle tastiere insulse che suonano anni 80. Chill fottuta wave, che iddio se li inculi tutti. Che diavolo c'è da ascoltare? Cosa c'è di interessante? Un beneamatissimo cazzo. E il signor Palomo ha poco da lamentarsi, chè grazie a sta cagata della chillwave esiste un motivo (non particolarmente valido) per parlare di sti tizi. E nel voto considerate che sono stato molto ma molto generoso per la presa per il culo a Tom Cruise (Com Truise, Tom Cruise, su, che non era difficile), perchè questa musica è l'equivalente digitalizzato della merda di topo.
Washed Out - Within and Without


Così capita che quando senti un po' di indie pop, che di solito eviteresti come la peste, come una diarrea di cane sul marciapiede, sei quasi quasi felice. E infatti accade proprio così quando mi imbatto nei 39 minuti della mia vita che non recupererò mai dei Memory Tapes con il loro Player Piano (Carpark, 2011, Voto: 6.4), una gradevole collezione di pop ormai classico dello scorso decennio, con le tastierine, un tizio intonato ma che non sa cantare, i rumorini, il beat in 4/4... insomma, un sollievo dopo tutti quei minuti di merda consecutivi. E c'è anche una canzone che vale qualcosa, Today Is Our Life, arricchita persino da, udite udite, uno stramaledettissimo assolo di chitarraaaaaa!! Yeeeeehh! Dammi il cinqueeeee! Alèèèè!! Ehr... ok, non è Frank Zappa, e probabilmente non lo riascolterò mai più volontariamente in vita mia... ma almeno non sono una sequela di fottuti bleeep bleeep bzzzz trrr bleeep bzzzz, ya know what I mean?

Il signor Washed Out (al secolo Ernest Greene) con il suo debutto di 40 minuti della mia vita che non recupererò mai Within and Without (Sub Pop, 2011, Voto: 5.7) non è offensivo come alcuni dei suoi compari, ma è facile non esserlo quando fai musica da ascensore, quando quasi quasi non si percepisce nemmeno il beat. E se anche la Sub Pop, la mia adorata Sub Pop, mi dà cantonate del genere... dove diavolo finiremo, eh? EH? Ok, questa chillwave di merda mi rende nervoso.

A risollevarmi un minimo il morale arriva ben presto Toro Y Moi con i 39 minuti della mia vita che non recupererò mai di Underneath The Pine (Carpark, 2011, Voto: 6.6), successore del chillwavissimo Causers of This dell'anno scorso, dove abbiamo l'onore di ascoltare strumenti musicali e non un cazzone dietro ad un fottuto Mac. Sarò un cagacazzo, sarò troppo affezionato alle dodici battute e alle Stratocaster, ma che Zeus mi fulmini se non sono contento. A quanto pare il computerino non era abbastanza per questo ragazzo, quindi il buon Chazwick Bundick - vero nome di Toro Y Moi - è andato in tour con una band vera, cosa che ha molto influenzato il nuovo album, sinceramente un discreto album di musica non particolarmente originale con interessanti elementi di soul e addirittura qualche influenza del Quincy Jones di Thriller (in particolar modo in Still Sound e New Beat) e addirittura un bel pezzo acustico (Before I'm Done - potete sentire un intero set acustico... ACUSTICO, avete letto bene, su Rolling Stone Magazine Online). Le atmosfere settantine somigliano un po' agli apprezzatissimi Air senza però averne la qualità, anche se, nonostante non brilli per eclettismo, qualcosa di buono si cava da questo tizio.

E come il web ha indebitamente osannato questi tizi, così come ha trasformato dei nerd nelle nuove rockstar, allo stesso modo la blogosfera sta incominciando a cantare il requiem della chillwave, perchè fa tanto figo stare con chi non è figo... e questi li hanno trasformati in fighi e alla moda, quindi adesso dobbiamo tutti odiarli perchè c'è bisogno di gente non figa che a sua volta diverrà figa e dovremo odiarla e via discorrendo. Come dimostra questo blog che leggo probabilmente solo io, il web ha degli enormi lati negativi, e conviene farsene una ragione, e sopportare che su metacritic queste cagate di cui vi ho appena parlato abbiano voti più alti magari di dischi di qualità... that's life... that's what all the people say...

E così, dopo 4 ore e 49 minuti circa della mia vita che non recupererò mai, senza considerare i secondi ascolti, la documentazione ed il tempo di scrivere, rileggere e correggere questa cagata, adesso finalmente so che dove leggo chillwave posso serenamente bypassare senza perdermi un cazzo di niente.

martedì 18 ottobre 2011

Jane's Addiction - The Great Escape Artist (Capitol, 2011)

Perry Farrell era Satana, Lucifero in persona. "Please allow me to introduce myself", sibilava all'esordio, rendendo giustizia al tema demoniaco del classico Stonesiano. Ma bastava anche un semplice "here we go!" a mandare dei brividi lungo la schiena.
E i suoi compari non erano da meno: i riff e gli assoli di Navarro, il genio ritmico di Perkins ma soprattutto del bassista Eric Avery, avevano fatto del gruppo Losangelino i reucci dell'alternativo, sfornando due imprescindibili capolavori e centinaia di devastanti performance live; è normale che, ad ogni reunion, i fan si aspettino che quel cazzo di fuoco prima o poi si riaccenda.

Non è successo con Strays, del 2003.

Non è successo con i tour recenti, non particolarmente.

Abbandonati prima dal redivivo Eric Avery, che non digeriva il nuovo progetto (nè il precedente, se è per quello) e dal ganzo e rozzo Duff McKagan, che li ha mollati nel bel mezzo della fase di scrittura - gradiva poco l'elettronica, a quel che ho capito - i Jane si sono rivolti a David Sitek dei Tv On The Radio, che, oltre a prendere i compiti che solgono essere materia di un bassista, ha aiutato nella produzione e nel maneggiare gli aggeggi elettronici. 

E tutto sto bordello, per poi deludere con un disco di sto genere. Boh. Continuate a girare con i tour, arrivati ad un certo punto, se non ve la fidate più a scrivere pezzi decenti. 

Immaginate i Duran Duran sommati ai Cure con Perry Farrell alla voce: ecco cosa vi aspetta sentendo quest'album. Navarro stordito per tutto il tempo che gigioneggia in evocative sonorità a là Robert Smith o a là Edge... figlio mio, ma sul serio? Ma non ti potevi continuare a drogare? Sto cazzo di Sitek, col cognome che sembra una marca di hard disk, combina poco o gnente per la maggior parte del tempo... siate seri, ragazzi, pensavate davvero di sostituire uno dei migliori bassisti rock degli ultimi 30 anni con un tizio a cazzo? Ed è proprio la mancanza di Avery quella che, nuovamente, si sente in maniera devastante... e Duff, furbo com'è, lo ha capito subito e li ha mollati regalandogli due belle canzoni (Broken People, Words Right Off My Mouth) e una mezza cagatina (Ultimate Reason). Ed è, ancora, proprio Avery il soggetto del miglior pezzo dell'album, quell'evocativa End Of The Lies che ricorda i bei tempi andati insultando uno perchè ricorda i bei tempi andati. E vabbuò, immagino che Perry non abbia colto l'ironia del suo gesto, impegnato com'è nella causa del Global Warming.

 Parlo in virtù della mezza delusione: non pretendo certo che un artista rimanga uguale o faccia le stesse cose per tutta la vita, rischiando di risultare patetico come Alice Cooper che a 70 cazzo di anni balla ancora cantando storie dell'orrore e School's Out conciato come un coglione. Nè sto dicendo che quest'album sia una porcheria, o inascoltabile... arriva ad una dignitosa sufficienza. Ma la vera domanda che pongo è questa: ha senso produrre roba da dignitosa sufficienza, privi di entusiasmo e di carica?

Coraggio ragazzi, mica dico che vi dovete ritornare a drogare, e capisco anche che le ville non si pagano da sole... ma invece di usare il nome sacro per molti (me compreso) dei Juana's Addictiòn, non potreste chiamarlo, che cazzo ne so... Velvet Revolver?
Voto: 6.1

Foster The People - Torches (Columbia, 2011)

Mi faccio fottere ogni volta.
Sarà che sto diventando vecchio.
Ogni dannata volta che mi avventuro (più per informazione che per interesse) a leggere quelle porcherie illegibili del NME e di Rolling Stone Magazine, trovo qualche presunta nuova band che merita ori e allori, che ha raggiunto il trionfo, eccetera, eccetera.
Ed io, come il fesso anzianotto che ormai sono, non mangio la foglia, non imparo mai, penso sempre "beh, sentiamo questo nuovo gruppo speciale!"
Ed, inevitabilmente, si tratta di qualche cagata indie alla moda o acustica con un cantante penoso o elettronica senza niente di interessante. In questo specifico caso, la seconda che ho detto. 

Musica da Gossip Girl, non trovo davvero un appellativo migliore per questo mediocre album reminiscente degli MGMT, Empire Of The Sun e di Peter, Bjorn e John: solo che i due gruppi da me citati qualche pezzo decente l'hanno fatto. Di quest'album salvo solo il pezzo che li ha portati al successo, Pumped Up Kicks, banalotto e contagioso. Il resto è fuffa alla moda, con qualche campionamento 8 bit, strumenti suonati da ragazzini semi incapaci e roba sistemata da un qualche produttore che sa fare il suo mestiere...

Si dice che il loro punto di forza siano i live, e a Loollapalooza, quest'Agosto, hanno suonato davanti a 35.000 fan in delirio. Aò, si a voi ve bbasta, a me m'avanza.
Voto: 4.7

Noel Gallagher's High Flying Bird - Noel Gallagher's High Flying Birds (Sour Mash, 2011)

Noel il simpaticone, ovviamente, non poteva essere da meno del fratellino, ed anche lui si è messo al lavoro per tirar fuori dal cilindro qualcosa da definire "capolavoro", "the best batch of songs i've written in years" e roba similare.

In realtà, si era messo già al lavoro anni or sono, quando decise che, per evitare discussioni con Liam, avrebbe viaggiato separato da tutti gli altri Oasis. Che uomo gradevole. In ogni caso, essendo ANNI (ma tanti anni) che non ruba più una canzone decente, sapevo già cosa fosse questa roba; per onestà intellettuale ho ascoltato per due volte i 42 minuti che compongono quest'album, ma sapevo ESATTAMENTE, nota per nota, cosa avrei trovato. And guess fucking what? E' noioso come il cazzo. Non è brutto, non è bello, non è niente. È The Importance Of Being Idle, ripetuto per 42 minuti... cioè nulla.

A scrivere canzonette così, sono buoni tutti, dear Noel. E anche i pezzi migliori della carriera dell'arrogante ragazzo di Manchester, quello che augura a due colleghi "to catch fuckin' Aids and fuckin' die" semplicemente perchè gli stanno antipatici, cantate da lui nel famoso unplugged in cui Liam lo mollò come uno stronzo, sono dignitosamente noiosi; carini, piacevoli, tutto quello che volete. Ma noiosi.

Di gente che scrive le canzonette ne è pieno il mondo, amico bello. Tenere in pugno non sono quante mila (centomila? duecentomila?) persone a Knebworth...beh, quella è una situazione diversa. Perchè se Some Might Say la avesse cantata Noel... se Rock N' Roll Star la avesse cantata Noel... adesso sarebbe solo un altro ultras del City a festeggiare il primo posto in classifica, invece che un'icona degli anni 90.

A questo punto, molto meglio l'esordio di Bell/Gem/Liam, perlomeno ha qualcosa che ti rimane in testa. Probabile che, cantate dal fratellino, sarebbero state più interessanti... ma Noel necessita o di un frontman come si deve o di godersi i suoi milioni e cavarsi dalle balle.

"The more successfull [this thing] is, the more time I'll disappear for!" ha dichiarato al NME. Beh, gli auguro che spacchi, allora. 
Voto: 5.8

Blind Boys Of Alabama - Take The High Road (Saguaro Road Records, 2011)

Vincono Grammy, vincono questo e quell'altro premio, le loro canzoni finiscono come theme song di importanti serie USA, hanno le collaborazioni famose ad ogni album... e sono uno dei gruppi più vecchi della storia. Sono esattamente quello che dicono di essere, ragazzi (!!!) ciechi dell'Alabama, quello di Forrest Gump e dei Lynyrd Skynyrd. Questi ragazzoni (!!!) hanno fondato questa congrega di ciccioni neri nel 193fottuto9, ed hanno pubblicato il primo disco nel 194fottuto8, ciò significa che sono praticamente il gruppo più vecchio del fottuto universo e, iddio ci salvi, ci sono ancora alcuni dei membri originali, quindi non è uno scherzone.
E questi vecchiacci neri, cosa volete che cantino? Ma naturalmente gospel, come si compete ogni buon vecchiaccio nero dell'Alabama. In questo caso un crossover molto riuscito di gospel e country (generi che del resto camminano mano nella mano da una vita), ed in ossequio alla scelta hanno invitato Willie Nelson, Hank Williams jr, Lee Ann Womack e tutta questa bella gente di Nashville per ottenere l'ennesimo, brillante, ispirato album, che ti fa capire come, quando ci sono prodotti del genere in giro, parlare di Noel Minchiagher e di Lady Cacca, Laty Cara, Radi O Gaga o come cristo si chiama è veramente un esercizio in coglionaggine non da poco.
Voto: 8.0

sabato 15 ottobre 2011

SuperHeavy - SuperHeavy (A&M, 2011)

Credo sia ormai assolutamente superfluo esaltare le doti di adattabilità alle mode di Sir Michael Philip Jagger di Dartford, UK. È anche superfluo dire quanto sia bravo a non imitare pedissequamente i suoni delle suddette mode, ma a fare un passettino avanti rispetto alla massa di capre, e come preferisca divertirsi al mero prodotto di mercato (capirai, caga banconote da 500$ quando si sveglia la mattina). In questo specifico caso, cercato dalla mente pensante del progetto, il buon Dave Stewart degli Eurythmics, qui quasi un direttore d'orchestra, ha gradito non poco divertirsi osservando le giovani chiappe di Joss Stone (chiamalo fesso, al Sir) e ascoltando i suoni "etnici" di Damien Marley - uno dei 634 figli di Robert Nesta in arte Bob - e del compositore Bollywoodiano A. R. Rahman. Questi due etnici signori riempiono il fottuto album di questo improbabile (quanto redditizio) progetto di inascoltabili suoni da video sul monitor del kebabbaro sotto casa e da discoteca-barra-troiaio, finendo per somigliare più a Don Omar che a Peter Tosh, contornando il tutto da uno pseudo-rap alla Sean Paul che mi fa venire voglia di tagliarmi un lobo dell'orecchio e mandarlo a Dave Stewart come gesto intimidatorio.

Le chiappe della Stone
La Stone, spesso spacciata come nuova Aretha o roba del genere, sembra una versione per i rockettari di Beyoncè, anche se invero ogni tanto ha i suoi momenti. Stewart non si sente nemmeno, non un fiato, non un peto, non un rutto; sappiate comunque che è responsabile con Jagger (e più di Jagger) di quanto di buono potete sentire in questa paraculata di dimensioni bibliche. Parlando di Jagger, come performer sembra un gigante tra i bambini nani, ridicolizzando involontariamente i suoi compari in ogni apparizione, tanto che quando tra una porcata di Marley e un vocalizzo inutile della Stone emerge la voce del più giovane vecchio del mondo ti viene da dire "COSI', CAZZO, ANDIAMO!!! E' COSI' CHE SI FAAAAA", incurante del fatto che la canzone in sè stessa è comunque una mediocre cagatina. Ed infatti Jagger non riesce a redimere il progetto, anche perchè tende spesso a strafare (One Day One Night, non male comunque) e perchè in ogni caso gli episodi di qualche valore (Miracle Worker e soprattutto la bella ballata di Jagger e Stewart, Never Gonna Change) vengono sommersi dalla mediocrità da discoteca degli altri.

Il progetto è curiosamente democratico, come dimostrano sia i credits dello stesso che i pezzi in sè stessi e, nonostante il pastrocchio eterogeneo dato dalla enorme diversità tra i componenti del supergruppo, in qualche modo ha una sua identità. Peccato sia un'identità di merda, ma hey, qualche pezzo buono lo si recupera, ed è già grasso che cola.
Voto: 5,5

lunedì 10 ottobre 2011

Beady Eye - Different Gear, Still Speeding (Beady Eye Records, 2011)

Era anche la cazzo di ora che ci levassimo i nOiasis dalle palle pelose, ma, sicuro come le tasse, non abbiamo potuto evitare che i due fratelli Gallagher si dividessero in due ventures separate: il gradevole Noel con qualche porcheria acustica o qualche Sunday Morning Call, lo squisito Liam con gli Oasis parte II. 

Leggendo queste righe, sappiate che già per me i migliori album degli Oasis (Definitely Maybe e Morning Glory?) sono tutt'altro che gli imprescindibili capolavori osannati da cani, porci e animali domestici. Sono, al più, dei buoni album di musica pop fatti da gente che sconosce le parole "dinamica" e "arrangiamento", che sa suonare come ragazzini davanti ad un falò, che ha il tasto "distortion" sull'amplificatore incollato con il nastro isolante e che ha avuto un impatto storico e culturale sulla musica paragonabile a quello delle Spice Girls. Fatta questa doverosa premessa, capirete come le mie mutandine di pizzo bianco non siano di certo bagnate all'idea di ascoltare 50 e rotti minuti della seconda formazione dei fottuti Oasis PRIVI PURE DI QUELLO CHE SCRIVEVA LE CANZONI. Però c'è anche da dire che le canzoni che scriveva il presunto genio da ormai un decennio rasentavano la pena più assoluta, la più becera copia di sè stessi che abbia mai sentito, e che, anche al meglio, non è che fossero queste intricate matasse compositive di cui trovare il perduto bandolo. Erano canzoncine del cazzo di tre accordi... gradevoli e piacevoli quanto volete, ma questo non cambia il succo del discorso, al quale, per vostra fortuna, sto arrivando.

Il succo del dannato discorso è che non ci vuole che una scimmia col cappello per imparare a scrivere roba del genere, e, seppure difficilmente ne raggiungerà mai il Q.I., Liam somiglia discretamente ad una scimmia, e scommetto che può permettersi un cappello al mercatino dell'usato, avendo venduto 70 fottuti milioni di dischi. E, vedi tu le cose della vita, l'album che ne è venuto fuori è migliore di tutta la fuffa che hanno prodotto i nOiasis negli ultimi dieci anni, e il trio compositivo Gallagher/Archer/Bell ha tirato fuori dal cappello un piacevole dischetto di stampo ridicolmente lennoniano, tanto più vicino al mastro ispiratore nei suoi episodi solisti quanto più gradevole (The Roller, Millionaire) ma non manca l'influenza del quartetto al completo (Wigwam), così come sono ancora saldamente presenti Stone Roses, Who e Pistols. 

Il disco è discretamente variegato, seppur utile come un secondo ombellico, e, se vuole iddio, manca la melensa ballata frantumammenicoli che Noel si riservava sempre più spesso, senza che nessuno gli si avvicinasse all'orecchio dicendogli "AMICO SONO TUTTE UGUALI CAZZO, NON SE NE PUO' PIU'!", e si lascia ascoltare, non foss'altro per cercare di riconoscere una canzone di Lennon dentro la rispettiva dei Beady Eye. Vuoi vedere che il problema era Noel sul serio?
Voto: 6.6

P.s.: il primo coglione che scrive per dire che già Gem, Andy Bell o come cristo si chiama, e quello sciroccato coi capelli piastrati scrivevano già negli Oasis le canzoni, vince un secchio di merda liquida da usare come glassa sulle torte al cioccolato. Cheers.

domenica 9 ottobre 2011

Amos Lee - Mission Bell (Blue Note, 2011)

Col fatto che l'ha scoperto Bob Dylan e che ha fatto una canzone obbiettivamente gradevole (Colors) finita praticamente in ogni telefilm dove un pene ed una vagina si incontrano in una situazione che comporta che dovrai aspettare la settimana successiva per sapere fino a che centimetro si incontreranno, a questo qua non ce lo caviamo più dalle balle. Spacciato per una sorta di Norah Jones al maschile, il ragazzo ha un problema molto semplice, e quest'album, prodotto da Joey Burns dei Calexico e brulicante di ospiti come Willie Nelson, Lucida Williams e Sam Beam, non lo risolve di certo.
Il problema, come dicevo, è semplice: la noia. Non succede un cazzo per 50 minuti. Nessuna canzone è brutta, la produzione è molto più che adeguata, la voce del ragazzo è di livello non sottovalutabile, i session man o quel cazzo che sono sono competenti, precisi e puliti... ma... non succede una mazza comunque. Non bastasse, le canzoni sono distinguibili le une dalle altre più o meno come i fratelli Dalton. Non so per voi, ma per me è un problema.
Voto: 5.4

Hugh Laurie - Let Them Talk (Warner Bros., 2011)

Che Hugh Laurie non sia solo Gregory House, che non sia il one trick pony che era ad esempio Henry Winkler, penso fosse chiaro anche al più superficiale degli esseri umani ormai. Con un talento che spazia dal recitato comico al recitato drammatico, dalla scrittura al pianoforte, dall'armonica a bocca alla slide guitar, Laurie si è dimostrato uno dei più eclettici intrattenitori degli ultimi 20 anni, seppur è vero che la massa di rincojoniti che rappresenta l'utenza media lo conosce esclusivamente come il geniale cagacazzo che ingurgita Vicodin come fossero Zigulì.

La musica ha sempre fatto parte della carriera attoriale di Hugh Laurie, che, in un modo o nell'altro, l'ha inserita sia in A Bit Of Fry & Laurie, strepitoso show che gli diede il successo in terra d'Albione, sia in Jeeves & Wooster, sia in House M.D., sia nella maggior parte delle altre parti interpretate nel corso della carriera. Ma ritengo di poter dire che nessuno, a parte i fan più incalliti (gruppo al quale devo mestamente confessare di appartenere), potesse immaginare un talento pianistico da navigato musicista blues.
Ed infatti, quest'album è tutto fuorchè il capriccio di una star viziata. E' un competente, piacevole, appassionato tributo al blues di New Orleans (Louisiana Blues, mi dice discogs, suonato da Signori musicisti - Laurie compreso - accompagnati dalla voce nasale dell'attore dagli occhi azzurri e da occasionali ospiti. E gli occasionali ospiti sono niente meno che Irma Thomas, Sir Tom Jones e, soprattutto, il divino Mac Rebennack, meglio noto come Dr. John.

Tra una devastante St. James Infirmary, una delle migliori versioni che abbia mai sentito, e una They're Red Hot l'album scorre che è un vero piacere e, nonostante sia stato snobbato dai signori di Pitchfork e gentucola misera del genere, troppo impegnati ad incensare la nuova porcheria di chissà che merdaiolo, non posso fare a meno di notare compiaciuto come un decennio di merda stia portando ad uscire fuori un numero di album di blues non irrilevante. Del resto, degli altri non ci frega ncazzo. Let them talk, disse un saggio.
Voto:8,4

Fleet Foxes - Helplessness Blues (Sub Pop, 2011)

Ellamadonna, ma questi allora sono bravi sul serio!

Nell'era dell'hype, è sempre bene diffidare dagli "artisti" osannati a destra e a manca, dato che di solito è semplicemente merito di qualche discografico che ha distribuito mazzette a cani e porci virtuali piuttosto che delle virtù compositive della band. 

E invece, coo coo ca-choo, Mr. Pecknold, Jesus loves you more than you will know, wo wo wo... un album incredibile, degno successore di quel fulminante esordio che nel 2008 raccolse i favori di critica, pubblico e anche i miei, che non è una cosa particolarmente semplice per gruppi nati dopo il 1995. Quel dannato Pecknold sembra preso dal letto e paracadutato dal 1971 ad oggi, con tutti i suoi fottuti deliri folk da crosbistillsnasheyoung, con le sue armonie impossibili da Brian Wilson, con il suo brillante simonandgarfunkelismo.

Where have you gone, Joe Di Maggio, verrebbe da chiedersi mentre si ascolta questo gioiello di perfezione, confezionato in 3 anni con l'aiuto di Phil Ek, già produttore dell'esordio, e costato una quantità di stress al leader della band da fargli persino interrompere la relazione con la sua tipa (che a quanto pare è tornata, dice wikipedia, incrociamo le dita! che belle notizie del cazzo che da wikipedia a volte), ma ascoltando il risultato si può ben dire che ne sia valsa la pena.
Con arrangiamenti più complicati dell'esordio e lo stesso gusto per armonie e melodie devastanti, Pecknold riesce a fare proprie le influenze di cui tutti ciarlano - egli stesso cita Astral Weeks di Van Morrison e Stormcock di Roy Ayers come principali punti di ispirazione - esternandole in un delirio sonoro assolutamente personale e riconoscibile, cosa che non accade quasi mai per nessuno dei tanti osannati venditori di merda indie acustica che affollano le pagine delle riviste online e i festival di non so che cazzo.
What's that you say, Mr Pecknold, pezzi come Sim Sala Bim, la cui coda sembra direttamente presa dal cassetto di Jimmy Page circa Led Zeppelin III, o come Bedouin Dress, nel quale scintilla un assolo di violino a riempire lo swing quasi dylaniano della chitarra, riescono nella ormai drammatica impresa di risultare roba NUOVA, maledizione, roba che, per quanto sembri cavata fuori dagli anni '70 del folk psichedelico non suona alle orecchie come merda già sentita o, peggio ancora, merda irrilevante. Ha l'assoluta qualità di risultare qualcosa di personale, qualcosa di nuovo e qualcosa di valore; e mentre un tempo era quasi risibile sorprendersi per qualità del genere, era quasi risibile immaginare che un album considerato di qualità non ti venisse voglia di ascoltarlo ripetutamente, ancora e poi ancora... adesso sembra quasi che la musica sia finita, che sia legittimo produrre cacatine da ascoltare sul momento giusto per impegnare il tempo, e, del resto, il processo di creazione e registrazione delle suddette cacatine è quasi ridicolo nella sua apatia. Album che non attendono altro che di essere sostituiti dal successivo. 

Beh, col cazzo. Pecknold ha dato l'anima per quest'album e, se non avete le orecchie foderate di merda di topo, avrete voglia di ascoltare quest'album ancora, ed ancora, perchè è brillante, è piacevole, è geniale.

God bless you please, Mr Pecknold, heaven holds a place for those who pray, hey hey hey.
Voto: 8.9

venerdì 7 ottobre 2011

Brian Wilson - In The Key Of Disney (Walt Disney, 2011)

Quando Brian Wilson fa un disco nuovo, camminano tutti sulle uova. O meglio, sperano tutti sia un capolavoro. Perchè, se non è un capolavoro, ti sembra veramente brutto dover dire male di uno dei più grandi geni della storia della musica pop che per giunta ha passato brutti, bruttisimi momenti ed ha rischiato di rimanere bruciato come il vecchio Syd, soprattutto quando sei abituato a dire e vaffalà e vaffaquà, e porco di su e porco di giù.

Oggi non dirò vaffaquà, ma oggettivamente non siamo di fronte ad un capolavoro: versioni sterilizzate e modernizzate di grandi classici della Disney come Bare Necessities (da "Il Libro della Giungla") o Kiss The Girl (da "La Sirenetta"), il tutto beachboysizzato con i coretti, la batteria a là "Then I Kissed Her" e tutto il necessario a non far dimenticare che sempre di Brian Wilson parliamo.

La voce è compressa e processata un po' come quella dell'ultimissimo Ozzy, col risultato di ascoltare a volte qualcosa di quasi robotico... il che, soprattutto se stai rimembrando l'infanzia, non è particolamente piacevole.

Il pezzo migliore di quest'album è paradossalmente la peggior canzone in astratto: Colors Of The Wind (da "Avatar", ehr, volevo dire "Pocahontas") acquista una bella luce wilsoniana da nuovo millennio. Per il resto, nessun passo falso ma nessun highlight... credo che si sia divertito molto di più Brian a registrarlo che chiunque lo ascolterà a prestare 37 minuti a questo divertissment.

E vaffanculo.
Voto: 6.2

Amanda Palmer - Amanda Palmer Goes Down Under!

La tizia dei Dresden Dolls considera molto, molto divertente cantare cantare canzoni scoglionate con argomento Australian-NeoZelandese, accompagnata dal piano o dall'ukulele, trattando di argomenti come il Vegemite, che iddio mi fotta se so cosa sia, o il fatto che in Nuova Zelanda non avesse le mestruazioni, o chissà di che altra cazzata, dato si perde attenzione per gran parte dell'album. Così come io trovo estremamente divertenti Mike Judge, Trey Parker e Matt Stone, Matt Groening, Seth MacFarlane, a giudicare dal pubblico dei live dai quali sono tratti metà dei pezzi, c'è un fottio di gente che trova esilaranti queste... queste... queste cose. Ognuno ha ciò che si merita, dice sempre un mio amico. Se escludiamo il singolo Map Of Tasmania, contagiosa cazzatella electropop e un pezzo molto cabaret denominato Doctor Oz (sì, credo sia quel Doctor Oz), qui parliamo di merda di topo spacciata per arte. Non è che ognuno che dice "pube" adesso fa ridere, eh.
Voto: 3.6

Booker T, Jones - The Road To Memphis (Anti, 2011)

Booker T è senz'altro una Leggenda del soul, proprio con la "L" maiuscola, ed il suo Hammond B3 ha segnato la storia della musica. Leader della più grande house-band della storia (gli MG's di Steve Cropper e Donald "Duck" Dunn che conoscerete sicuramente per il film "The Blues Brothers", ma che dovreste conoscere anche come chitarra e basso della Stax Records di Redding, Sam & Dave e Wilson Pickett) è tornato nel 2009 dopo molti anni di silenzio e, sorprendentemente, ha spaccato numerosi culi con il suo Potato Head, orfano dei suoi MG's ma accompagnato dai Drive By Truckers, gruppo che qualcuno di voi stronzi potrebbe conoscere e considerare inferiori a gente tipo gli Editors o gli Interpol, o qualche altro gruppo di segaioli. 

Per questo secondo album del nuovo millennio (come sempre in buona parte strumentale), Booker si affida alle competenti mani dei Roots e a diversi ospiti, su tutti quel vecchio fottuto di Lou Reed e il tizio dei My Morning Jacket, e ne viene fuori un affascinante gioiellino, nient'affatto antico (anzi, addirittura modaiolo a volte, come in Progress, traccia nel quale troviamo alla voce il già citato tizio dei MMJ, Yin Yames) che cresce ad ogni ascolto nella sua meticolosa esecuzione, retta in maniera strepitosa dai Roots, che non fanno rimpiangere i Drive By Truckers.

E se di Booker T non si può dire che sia una sorpresa nè nella bravura tecnica, nè in quella compositiva e nemmeno nella capacità di essere moderno senza essere odiosamente gggiovane, vera sorpresa per me sono stati proprio i Roots, gruppo che avevo sempre snobbato ad eccezione della meravigliosa You Got Me con Erikah Badu, soprattutto ?uestlove alla batteria a tratti davvero strepitoso, come nella cover di Everything is Everything di Lauryn Hill, un piccolo gioiello.

Parlando di cover, è invece scialba la osannatissima rilettura di Crazy, stramegasuperiper successo degli Gnarls Barkley, unico pezzo in cui Booker, sempre più capace di adattarsi, sembra fuori posto. 

Per il resto, non vi strapperete i capelli, su quello non c'è dubbio, ma è una piacevole conferma che Booker nel nuovo millennio sia ancora "alive and kicking".
Voto: 7.4

giovedì 6 ottobre 2011

Adele - 21 (XL, 2011)


È veramente incredibile come, in quest'epoca isterica, la programmatica frase di quel gran bastardo di Goebbels ("Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità") sia stata applicata in qualunque campo della vita soggetto ad approvazione del pubblico. In ambito musicale, complici gli ottenebrati che avrebbero la pretesa di farsi chiamare critici musicali, la situazione è la peggiore possibile: ad ogni nuovo merdone mediocre che decidono sia applicabile il principio "parliamone bene così diventa bravo", si scatena uno tsunami di "bene, bravo, bis, che voce, che incommensurabile talento!" 

Adele, per fare un esempio tangibile, è una specie di Shania Twain meets Amy Winehouse, tuttavia priva sia dell'incommensurabile talento della sgorbietta di Camden Town che della paraculaggine pop della canadese, nsomma, talento pochino, se per talento non intendiamo quello dei "talent" show; eppure questo non ha fermato le orde feroci di critici musicali pronti a farne un'eroina ("bene, brava, bis, che voce, che incommensurabile talento, peccato per quel cazzo di mento che sembra una costoletta di maiale o al limite il culo di una marmotta depilato, ma davvero eccellente!"), così come non ha fermato le orde di decerebrati che ne hanno fatto una recordwoman di copie vendute in ogni cazzo di dove.
Non c'è una canzone che rasenti la sufficienza, se non una patetica cover di Lovesong dei Cure, appena dignitosa, e una specie di blues (One and Only), che sarebbe pure carino - seppur originale come un monologo del fu eroe Luttazzi - se non ce lo trascinassero per gli ammenicoli per 6 minuti senza nessuna ragione plausibile se non fare urlare sta presunta fenomena, la Vampeta del pop... non un assolo di chitarra, non un break di hammond, niente, un cazzo, solo sta stronza che urla. Ma se nel calcio presto o tardi (e di solito accade prestissimo) i nodi vengono al pettine, nella musica, finchè esisteranno miserabili che parlano di prodottucoli da talent show come questa Adele in termini di "talento", "classe" e "qualità", la gente che suona sul serio, la gente di vero talento rimarrà a fare la muffa, mentre questa continuerà a fare tanti, tanti, tanti soldini. 

Assecondando il noto "Teorema del Bunga Bunga", la potevano almeno prendere figa e fare vedere un po' di tette o roba simile, che fanno intrattenimento, fanno cultura, fanno spettacolo. E invece gnente, è ppure cessa.
Come disse un saggio profeta, "so pegg' dell' puttan'"
Voto: 4,6

mercoledì 5 ottobre 2011

Radiohead - The King Of Limbs (Self Released, 2011)

Partiamo da un presupposto di base: avete la testa conficcata su per il culo. Ora, per pura ipotesi, per fare accademia, facciamo finta che non abbiate la testa su per il culo. Non sto dicendo che sia così, ma cercate di seguire la mia ipotesi come fosse fantascienza. Se non aveste la testa su per il culo, dal primo secondo all'ascolto di quest'album, come dei novelli Peter Griffin, direste "Aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta"... e verreste illuminati da uno dei migliori dischi degli ultimi 20 anni, il miglior album dei Radiohead dai tempi di Amnesiac - e parliamo dei Radiohead, quindi nel mezzo non ci sta mica "Viva la Vida and her c*cksuck*r piece of sh*t". Proseguendo nell'ipotesi, non vi lamentereste della breve, vivaddio, durata dell'album, ricordando che quando si ha qualcosa da dire, non necessariamente la si deve ripetere in maniera mediocre per oltre 70 fottuti minuti, ma ci si può fermare quando si è raggiunto l'intero contenuto del messaggio. Ancora, capireste in un batter di ciglia che Codex, nella sua devastante nudezza, è uno dei migliori pezzi del gruppo di Oxford, e che il talkinheadsiano Bloom non va lontano dal livello del capolavoro Kid A, e che, ancora, Lotus Flower è un singolo con le balle d'acciaio, e che la presunta inaccessibilità dell'album di cui trattiamo non è che altro che l'ennesima conseguenza di avere il cranio conficcato su per le natiche, dato che è di ascolto di gran lunga più semplice sia di In Rainbows che di Hail To The Thief, seppur in larga parte affidato all'elettronica e alla sperimentazione.

Ma bando alla fantascienza, avete la testa saldamente e profondamente dentro il culo, quindi i Radiohead sono presuntuosi, il disco è bruttino, corto e insipido. Che Zeus mi bruci i peli del culo, quanto vi odio.
Voto: 9.1

Primus - Green Nauganhyde (ATO Records, 2011)

Il Nauganhyde, impronunciabile parola del titolo, è quella simil-pelle che si usa nelle poltronacce (comodissime) da studio dell'avvocato e nelle cafonissime auto americane. Una Studebaker gialla con i sedili verdi di nauga, è una cosa di un cafone indicibile, ma allo stesso tempo incredibilmente affascinante, anche se fottutamente strana; che è un po' una definizione calzante per il gruppo di virtuosi di El Sobrante, CA. Dopo 11 dannati anni senza un LP, nonostante un tour-reunion-nostalgia, un greatest hits (HA!), qualche dvd o cazzate del genere e un EP non particolarmente memorabile, torna finalmente l'unica band a poter vantare un proprio genre tag personale su Winamp: ladies and gentlemen... let's all give it up for Primus!!!

Les Claypool non ha di certo lesinato output in questi anni di pausa dal più devastante gruppo ad aver avuto un video in heavy rotation su Mtv: tra libri, riproduzioni nota-per-nota di interi album dei Floyd, progetti alternativi e altre minchiate assortite, praticamente ha creato più di quando dirigeva i Primus stessi. Ma in realtà si sentiva estremamente la mancanza di questi meravigliosi cazzoni, e credo che loro stessi si siano divertiti un casino a registrare quest'album.
Parlando di gente che si diverte, Tim "Herb" Alexander ha deciso che i Primus non erano un progetto divertente da perseguire, e ha deciso invece di perseguire il progetto alternativo di Maynard James Keenan, i Puscifer. Se già fanno cagare quelli non alternativi, che iddio si fotta i Puscifer e l'anima de li mejo mortacci loro. Al suo posto rientra Jay Lane, batterista della prima incarnazione dei Primus - insieme a Todd Huth  - (parliamo di un periodo di poco antecedente l'esordio discografico) e membro dei Sausage proprio con Huth e Les Claypool... ça va sans dire, un'altra belva.
Gigantesco passo avanti rispetto a quella semi-merdata di Antipop, prodotta in pieno delirio nu-metallico, in realtà è un parziale ritorno agli esordi di Frizzle Fry ed un album di tutto rispetto. E con "album di tutto rispetto" non intendo rispetto ai Muse, ma intendo rispetto ai Primus... ergo è un album con i gran controcazzi. Meno incentrato sui deliri virtuosistici di Les (mi verrebbe da dire purtroppo, ma a dire il vero non è che ce ne siano pochi), a volte psichedelico come Tales From The Punchbowl (Jilly's On Smack, forse il pezzo migliore dell'album), a volte cazzuto come Seas Of Cheese (nel quarto capitolo delle Fisherman's Chronicles, Last Salmon Man, pericolosamente reminiscente della Here Come The Bastards che fu), a volte ancora cazzone come il Jerry Reed di Amos Moses di cui Les e soci fecero una più che fedele cover (Lee Van Cleef, dedicata a Clint Eastwood e a Van Cleef, eroi dello spaghetti western dei capolavori di Sergio Leone), il disco è, senza sorprese, esattamente quello che noi tutti stronzi volevamo da Les e Ler, 50 nuovi minuti di marca Primus originale, diffidate dalle imitazioni.

L'unica cosa che è calata un po' a livello qualitativo è la vena poetica di Les, un tempo geniale (e sottovalutatissimo) autore di testi deliranti ed inarrivabili come The Pressman, John The Fisherman, Nature Boy... oggi maestro del basso in ogni sua manifestazione, grande compositore ed autore di testi un po' scipidi. E vabbuò, io mi accontento... di questi tempi è gran grasso che cola un album così.
Voto: 8,3
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